il Portogallo in treno; ostelli, case sgangherate, i colori e l’Oceano

portogallo, viaggiare

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Abbiamo chiuso gli zaini, che dentro avevano davvero tutto lo stretto indispensabile, e siamo saliti in treno, insieme a tutti quei ragazzi che d’estate si aggirano per l’Europa come animali selvatici, che non obbediranno mai a nessuno se non al vento che gli soffia dentro e li fa spostare e spostare ed andare. Abbiamo mangiato pesce fresco ed economico con le mani, bevuto birra fredda a qualsiasi ora del giorno, passato notti di sonno fantastico nei luoghi più fighi del mondo, gli ostelli, in dieci in una camerata e ognuno da solo per la Terra. Siamo saliti sul tram numero 28E che sembrava più di stare sulle montagne russe che tra le vie acciottolate e strettissime di Lisbona. Ci siamo persi nei parchi verdi e rinfrescanti, abbiamo camminato a piedi nudi ogni volta che ci andava di farlo. Ci siamo tuffati nell’Oceano cercando di danzare con quelle onde potenti e ghiacciate, con la sabbia che finiva ovunque, mangiando panini e confondendo l’orizzonte e le nuvole. Abbiamo preso tutto il vento e il sole che l’estremo Ovest ci lanciava addosso e ci siamo sporcati le mani con quella terra rossa che trovavamo nei dirupi. Abbiamo camminato e camminato, per ore, guardando per aria e collezionando le immagini dei palazzi e dei loro colori. Ma soprattutto mentre eravamo in viaggio abbiamo sognato quella vita che stavamo già vivendo, sempre sulla strada, sempre come uccelli migratori in cerca di un nuovo orizzonte su cui addormentarsi e da cui, il giorno dopo, ripartire.

Veronica J.

Girls are around; LONDRA!

inghilterra, viaggiare

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Tutto l’amore che ho; LUBIANA

slovenia, viaggiare

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Era da tanto che sognavo questa città e per tanto tempo l’ho immaginata proprio così come l’ho vista. Solo un po’ più fredda!

 

Veronica J.

Love is old, love is new, love is all, love is you; AMBURGO

Germania, viaggiare

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Che città magica. Amburgo mi ha sorpresa. i Colori, gli odori, le luci. Rintanarsi in un caffè per sfuggire al freddo e perdersi in mille chiacchiere sorridendo sopra un bicchiere di cioccolata. La colazione a base di panini al pesce, la nebbia del fiume e il suo vento. La notte buia e umida. Il Natale che adorna le piazze. La migliore compagnia ❤

 

Veronica J.

Restare a Parigi

francia, viaggiare

Quando desideri troppo una cosa poi non è mai come te la saresti aspettata, ma Parigi è un un dado dalle mille facce e ti cambia tra i piedi come cambia il cielo. Se ripenso a Parigi mi sento in sintonia con me stessa e con i miei desideri assurdi, che un po’ vivono tra le nuvole, un po’ nelle pennellate di un dipinto e un po’ nell’odore del caffè. Io non so niente se non che Parigi è la città che desidero.

Venezia-Parigi, Parigi-Venezia in treno notte, con il dondolio dei vagoni a far da ninna nanna. è un viaggio solo andata. Anche se hai solo tre giorni per visitare la tua città del cuore parigi-selezione-6parigi-selezione-7parigi-selezione-8parigi-selezione-12parigi-selezione-13parigi-selezione-15parigi-selezione-16parigi-selezione-17parigi-selezione-20parigi-selezione-21parigi-selezione-23parigi-selezione-24parigi-selezione-26parigi-selezione-27parigi-selezione-28parigi-selezione-31parigi-selezione-32parigi-selezione-33parigi-selezione-34parigi-selezione-37parigi-selezione-38parigi-selezione-39parigi-selezione-41

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10 giorni di felicità;

fotografia, spagna, viaggiare

Ho trovato un volo economico e l’ho preso. Macchina fotografica, due robe nello zaino, il costume e tanta voglia di: FELICITà. Anche sono per qualche giorno. Anche solo con due soldi in tasca. Cos’è stata la felicità? Mia sorella e viaggiare con lei. Un lavoro per guadagnarmi il pane e un letto comodo. Capire che merda sono i pregiudizi e scoprire persone che ti cambiano il modo di vedere le cose. Ricevere regali inaspettati e preziosissimi. Dedicare il tempo a far sorridere gli altri. Capire quanto ti basta poco per vivere e vivere bene. Tutti i colori che mi sono mangiata con gli occhi. Mia sorella e viaggiare con lei, cazzeggiare con lei, incazzarsi con lei, ridere, avere fame, mangiare, bere, progettare, chicchierare, non fare niente, con lei.

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Alicante, Villajoyosa, Benidorm, Murcia.

E poi questo posto…

laguna rosa Torrevieja

IN GIRO PER I BALCANI- giorni 19 e 20; Tornare e andare

Diario dei Balcani, viaggiare

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I giorni in Albania si sono mescolati tra loro. E io dalla gente mi son lasciata trascinare. Tutto questo è un’emozione forte, che sale dalla terra sotto le mie scarpe e arriva tra i miei capelli, come il vento. Saluto Lola, che si volta a piangere, un bacio a Lipi e ai suoi sette anni favolosi. Mi prendo gli ultimi abbracci di Amina e il coraggio di Esmeralda. Ripartire è un’esigenza vitale, come non volere andare via. E allora cosa fare? Questi luoghi mi hanno dato la possibilità di mettere alla prova me stessa. Io con l’altro. io con lo straniero. io come straniera. io con me. io come me. Coraggio, paura, voglie. Ogni decisione folle presa per mia volontà e ogni volta che mi son lasciata trasportare dagli altri. Amici di viaggio in cui mi son potuta rispecchiare. Il brillìo negli occhi di chi ha saputo vedermi arrivare e con un ‘buona fortuna’ vedermi andare via. i loro volti e i loro occhi brillanti che a volte ho acceso io, con il mio vagare instancabile verso il mondo ed inevitabilmente verso di loro. Salgo nella prossima auto che mi porterà via da loro nascondendo il mio volergli bene sotto gli occhiali da sole, lo sguardo verso il finestrino. Sprovveduta e irregolare. Ragazzina come una nuvola che va e non sa chi è. Che fare. Quando il traghetto già parte dal porto di Durazzo, cerco la vista peggiore per salutare i Balcani. A poppa le terrazze dei piani sono gremite di gente che saluta la propria terra, guardandola finalmente in silenzio, al massimo fumando una sigaretta. Ma io cerco il posto più vicino al mare, per avercelo addosso. per confondermici.

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Pensare a quando sono partita, quel giorno da Venezia, è un grande sorriso. La sfacciataggine che ho avuto. Io, donna, troppo magra e indifesa. SCUSATE, ce l’ho fatta. E ce l’ho fatta non significa che sono tornata a casa viva, per quanto ami il pericolo io voglio vivere. Ho coscienza di me, di ciò che mi gira intorno. Ce l’ha chi viaggia semplicemente e cerca di sentirsi parte. Ce l’ho fatta significa che sento la mia mia mente più aperta, il mio cuore più pieno. Ce l’ho fatta significa che sono riuscita ad entrare in sintonia con chi di più diverso ho incontrato lungo la mia strada. Ce l’ho fatta significa che da straniera ho saputo sentirmi e farmi accogliere in qualsiasi casa, in qualsiasi cuore io volessi avvicinare. Ce l’ho fatta significa che i muri non esistono se non in chi non sa amare. Empatia, sguardi, un sorriso. Sono il mio tatuaggio più bello, la consapevolezza che nulla mi ferma, nemmeno io.

Guardo il mare e non capisco dove sia il confine tra uno Stato e l’altro. Bevo il caffè che qualcuno per caso mi offre. capisco che confine non c’è.

Quando però metto piede in Italia, Ancona mi guarda con gli occhi di una ostetrica sapiente e silenziosa. La strada familiare del porto sembra così nuova, eppure antica, mia. La mia terra è una terra nuova perchè è mia insieme a tante altre. Accolgo le colline verdi come loro accolgono me, un respiro ancestrale. Mi tengo tutto per me e assieme lo restituisco a chi vuole accoglierlo. Ma il viaggio non finisce mai e io non mi fermo.

Sono una nuvola.

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Veronica J.

IN GIRO PER I BALCANI, giorni 15, 16, 17, 18- quando casa è ovunque tu sia

viaggiare

 

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A Kavaje i galli, padroni dei propri pollai, cantano ogni mattina. Per ore. Qui si dice che un gallo canta ogni volta che vede un angelo, anche se questi sembrano essersi nascosti per bene. Qui è più un limbo nuovo dell’inferno, il parcogiochi degli inferi, il punto di ristoro per i dannati. C’è un giardino all’ombra della moschea dove gli uomini passano le giornate a giocare a scacchi, dama, carte, urlando e ridendo… i bar non smettono di essere affollati e rumorosi, il mercato a cielo aperto arrogante e colorato. I giorni si mescolano nel traffico del centro. Non esiste giornata che non inizi con un caffè al bar, se vuoi pure due. Andiamo al cimitero, dove l’erba alta invade le tombe e i fiori finti posati nei vasi. Non esiste distinzione di religione, al cimitero quello che credi di essere stato sei stato, ora stai sotto la stessa terra del tuo diverso. Il mercato è pieno di gente che guarda e non compra, però non manca niente. La mia nuova famiglia albanese mi porta di qua e di là. La piazza, il mare, il ristorante, dallo zio, dal macellaio. Non ci fermiamo un attimo perché è così che vivono gli albanesi. In continuo movimento, soprattutto nelle ore più calde della giornata!! Marjus va a farsi un tatuaggio e ci vado anche io. Alle 11 di sera il negozio è affollato di uomini e fumo. Stringo la mano guardandoli negli occhi, come fossi uno di loro, e mi faccio tatuare mentre bevo, come fossi uno di loro, un energy drink dolcissimo. Quando usciamo è notte fonda giusto il tempo per un caffe. Un altro. Non smetto di conoscere parenti, amici, vicini e tutti mi vogliono bene. Lola mi regala un vestito e insieme sfogliamo le foto di quando era piccola. Con Lipi gioco a pallavolo e non vuole più che vada via.

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L’albania è un posto pazzesco. Un posto strano,vitale. Contraddittorio, rumoroso ma omertoso, dove tutto va bene e un attimo dopo tutto è da cambiare, o da scappare. Gli italo-albanesi percorrono a passo sicuro le strade, con le loro macchine lucide e i loro vestiti alla moda, come fossero dei vip, ma da umili. Sanno di che sapore è fatta la povertà, l’ignoranza e se non la conoscono direttamente sono in grado comunque di sentirla, di vederla in chi è rimasto, nei loro fratelli. Nonni, amici d’infanzia, conoscenti. Niente procede. Chi ha più soldi manda figli e figlie nelle scuole private, garantendo ai maschi un lavoro importante e alle femmine un marito affascinante e ricco da curare e a cui dare figli. Per gli altri c’è il destino. La famiglia è l’unica impresa per cui preoccuparsi. Portano in bocca la madre patria Albania eppure c’è poco, se non nulla, che mostra i segni di una Nazione presente né i suoi nazionali sembrano preoccuparsene troppo. In fin dei conti basta che il comune eriga una grande fontana luminosa al centro della città e tutti sono contenti, più vistosi. In Albania si mangia pasta, si beve caffè, pepata di cozze e gelato buonissimo. Tutti parlano e cantano in italiano. I nostri abissi sono simili, se non gli stessi. Ma in tutti questi demoni c’è qualcosa di puro e semplice. In chi ti apre la porta di casa e ti da un letto su cui dormire, in chi ti offre una merenda di frutta fresca, in chi vuole raccontarti del bel marito di sua figlia e della grande festa per il matrimonio. La trovi lì la nazionalità degli albanesi, nei gesti d’affetto e spontanei che non puoi rifiutare. Rumorosi, eccentrici, allegri, permalosi ed orgogliosi. Senza esitare ti fanno entrare nelle loro famiglie, come uno di loro e difficilmente puoi dimenticartene. Uniche imprese per cui preoccuparsi.

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Veronica J.

IN GIRO PER I BALCANI, giorno 14- Estremo sud

Diario dei Balcani, viaggiare

 

Lasciare e prendere, soprattutto. Quando già le mie spalle sono rivolte al Montenegro è troppo tardi per realizzare dove andrò a finire. Cosa combinerò. Chi non sarò più. Il pulmino che a spintoni attraversa il confine non ha nulla di legale, sicuro, comodo o almeno un po’ rassicurante. Proprio come piace a me. La botola sul tetto tenuta aperta da una bottiglia di plastica incastrata ad arte, la portiera spalancata per far circolare l’aria che però non circola, l’autista ubriaco, sbandato, distratto, senza patente o chissà che e una mandria di viaggiatori sconsiderati e irrazionali che si spingono verso l’estremo sud d’Europa. Benvenuti in Albania. Le prime immagini che ricevo me le mangio con gli occhi. Una fotografia immortale che non sbiadisce mai, come le mie sensazioni. Esiste davvero un posto del genere, qui, in Occidente? O sto sognando? Che assurdo film è mai questo? Che strano e vecchio documento della storia? Tutto sembra tornare indietro ed essersi fermato a certe storie confuse di vecchi sdentati che hanno guardato in faccia alla guerra e alla fame. Eppure la vita scorre come un fiume senza mai fermarsi. Va e va e non si placa il movimento casuale della gente che invade le strade e tutti i luoghi. Per la prima volta mi sento persa, impotente di fronte al ritmo che gli albanesi scandiscono con il loro via vai indecifrabile. I grandi e osceni palazzi mi danno le vertigini, le macchine che sfilano via come frecce i brividi. Dove sono? Cosa ho fatto? Chi non sono? Carico lo zaino sulle spalle, che pesa sempre meno o sono io ad essere più forte, ma la mia faccia confusa non lascia scampo. Mi sono persa nella giungla. Piccolo puntino in un labirinto senza meta e senso. Una ragazza mi trascina a prendere il prossimo autobus per Tirana. E io mi affido completamente al caso e alla speranza di, prima o poi, arrivare. Qualunque sia la mia destinazione. L’autobus in realtà è un auto 9 posti con guida a destra. Il suo autista un ometto intirizzito e chiacchierone. Spengo tutti gli obiettivi, questo posto lo fotografo per me. Che faccio fatica a capirlo e soprattutto a stargli dietro. A bordo conosco Donald, secondo angelo della giornata, che mi accoglie come un ospite e mi racconta della sua terra. Col solito brillìo negli occhi di chi, nonostante tutto, è capace di amarla. Un po’ come succede a me, quando parlo di casa mia. A Tirana il mondo esplode. Venditori e approfittatori di professione cercano di accalappiarci, venderci un sedile su un autobus per due soldi, con le facce rugose di fame e di ignoranza, quella del regime, che non riesce a lasciare le loro teste. Ma Donald prima di essere italiano è albanese e mi guida verso il posto giusto, la giusta direzione. Quando l’autobus mi lascia in mezzo alla strada saluto in italiano e così mi rispondono tutti. Esmeralda è lì che, nelle sue vesti, invade la corsia e fa segno di raggiungerla. Ci abbracciamo, come se fossimo sorelle, anche se non ci siamo mai viste prima. Salite in macchina l’aria condizionata è come un bicchiere di acqua freschissima, gli occhi di Mohamed, il suo piccoletto, due perle azzurre come il mare. La mia mente è confusa, il tempo sembra aver preso il comando di ogni mio intento, l’Albania il controllo del mio destino. La macchina sfreccia nella città di Kavaje, tra la moschea, la chiesa, i mercatini e le facce degli zingari affacciate sui bidoni dell’immondizia. Dove sono? Cosa ho fatto? Chi non sono?   I palazzi sono cadaveri abitati. Nulla è finito, tutto è da fare e comunque si continua a costruire. Solo non concluso e altro nuovo osceno. Senza averne mai abbastanza e soprattutto senza ordine, logica o buon senso. Ma quando la macchina si ferma sotto al palazzo che sarà casa mia per il resto del mio viaggio il mio stupore e la mia eccitazione aumentano. Una mandria di bambini aspetta affacciata dalle rampe delle scale e come animali selvaggi si precipitano giù. Per osservarmi e guardarmi meglio. Fiutare il nuovo, curioso animale italiano che è arrivato in città. Il quartiere si sveglia dal torpore del pomeriggio, le vecchiette prendono la scopa in mano e decidono di spazzare l’ingresso di casa, gli uomini escono a fumare una sigaretta, i bambini mi fanno da paggi, un po’ scapecciati e vestiti storti. Quando raggiungo l’ingresso di casa Susy mi abbraccia come una figlia, Amina mi guarda con gli occhi di chi ha una nuova sorella maggiore, quella che non ha mai conosciuto. Io guardo il sole che scende dietro il vecchio quartiere mai concluso e i bambini che sono scesi in strada a giocare e, così semplicemente, mi sento a casa mia.

Veronica J.